– INTERVISTE COL DESIGNER –

La luce? Bella e semplice da montare

Come NON deve essere una lampada?
Questa domanda mi ha fatto pensare a tante cose, ma da uomo che ha fatto tanti traslochi e smontato e rimontato molte lampade, mi viene da dire dal profondo che NON deve essere difficile da installare. Mi è capitato di montare alcune lampade bellissime come la Falkland di Munari per Danese o la Smithfield di Morrison per Flos. Ecco, direi che è un’esperienza un po’ fantozziana e un po’ frustrante. Un percorso di dolore in cui i quattro arti di colpo sembrano essere pochissimi. Si fa un gran parlare di “design for all”, di user experience, ma qui l’unica esperienza nel posare questi prodotti sembra destinata ai giocolieri del Cirque du Soleil. Isolare le operazioni, fare sì che i corpi pesanti delle lampade si possano agganciare rapidamente e per ultimi, preparare istruzioni schematiche e sensate come fa l’Ikea. Facilitare l’installazione e che non richieda l’aiuto di strumenti esotici come le chiavi Torx. Ah, dimenticavo un dettaglio: NON deve essere brutta una lampada, neh.

Ci racconti come un gesto è diventato luce?
A me è capitato sicuramente con un paio di lampade: la Fold e la Colibrì di Foscarini (purtroppo non più in catalogo, N.d.R.). Per la Fold cercavo un gesto semplice come quello di coprire una fonte luminosa con un foglio di carta, che è il primo gesto che ti viene da fare quando inizi a giocare con la luce. Il progetto poi è cambiato, ridisegnando la forma e cercando di trasformala in una forma più organica. Per la Colibrì mi piaceva l’idea di una lampada che un po’ come una torcia fosse fatta per indicare e scontornare un’area di luce. Per questo avevo pensato sin da subito di dotarla di una appendice da cui afferrarla per puntarla, una sorta di manico-maniglia.
La cosa che nel tempo mi ha sorpreso di più è che la luce – anche se immateriale – si presta molto a essere disegnata a partire da un gesto, anche se potrebbe sembrare terminologicamente un controsenso. Nei fatti non è un ossimoro, ma una estensione delle possibilità di condizionare la fonte luminosa donandole valenze diverse. Forse è proprio questa idea di condizionamento coniugato con la bellezza dell’oggetto lampada, questa coesistenza che genera una bella lampada.
Mi è capitato anche di disegnare una lampada che dal gesto prendeva vita nel senso di accendersi: la Voleé disegnata per Fontana Arte. È una tasklight che dentro la testa nasconde un sensore capace di catturare i movimenti. Passando la mano sotto la testa della lampada si ottiene l’accensione di questa. Cercavamo una caratteristica unica e spiazzante per questo oggetto, di rendere fisica l’interazione con la luce immateriale e questa soluzione ci aveva regalato proprio questa possibilità.

Ci racconti come un gesto è diventato luce?
A me è capitato sicuramente con un paio di lampade: la Fold e la Colibrì di Foscarini (purtroppo non più in catalogo, N.d.R.). Per la Fold cercavo un gesto semplice come quello di coprire una fonte luminosa con un foglio di carta, che è il primo gesto che ti viene da fare quando inizi a giocare con la luce. Il progetto poi è cambiato, ridisegnando la forma e cercando di trasformala in una forma più organica. Per la Colibrì mi piaceva l’idea di una lampada che un po’ come una torcia fosse fatta per indicare e scontornare un’area di luce. Per questo avevo pensato sin da subito di dotarla di una appendice da cui afferrarla per puntarla, una sorta di manico-maniglia.
La cosa che nel tempo mi ha sorpreso di più è che la luce – anche se immateriale – si presta molto a essere disegnata a partire da un gesto, anche se potrebbe sembrare terminologicamente un controsenso. Nei fatti non è un ossimoro, ma una estensione delle possibilità di condizionare la fonte luminosa donandole valenze diverse. Forse è proprio questa idea di condizionamento coniugato con la bellezza dell’oggetto lampada, questa coesistenza che genera una bella lampada.
Mi è capitato anche di disegnare una lampada che dal gesto prendeva vita nel senso di accendersi: la Voleé disegnata per Fontana Arte. È una tasklight che dentro la testa nasconde un sensore capace di catturare i movimenti. Passando la mano sotto la testa della lampada si ottiene l’accensione di questa. Cercavamo una caratteristica unica e spiazzante per questo oggetto, di rendere fisica l’interazione con la luce immateriale e questa soluzione ci aveva regalato proprio questa possibilità.

La forma segue la luce o viceversa?
Quando c’è qualcuno che segue qualcun altro o è una setta o è stalking. In entrambi casi sempre meglio chiamare la polizia. A parte gli scherzi, credo che le cose debbano procedere assieme e confondersi integrandosi sia formalmente che dal punto di vista funzionale. Certo è la cosa più difficile da fare, ma penso che le luci più belle siano quelle in cui è impossibile tirare una riga dividendo forma e luce, quelle in cui non si riesce a stabilire un confine. Questa auspicabile fusione si trasforma in una forza che colpisce l’osservatore.

Nel 2020 ha ancora un senso parlare di icona del design?
Chiara Alessi dice di no e mi trovo d’accordo con lei come spesso accade. Penso sinceramente che sia una cosa che fatica a risuccedere non perché è cambiata l’iconicità degli oggetti, ma perché gli oggetti sono tanti e si sovrappongono e lo fanno su uno sfondo che è più frastagliato e rumoroso che nel passato. Si fa fatica a trovare lo spazio fisico per analizzare e percepire correttamente gli oggetti, spesso quando si sta per riuscire ne arrivano altri, spesso dalle stesse aziende che avevano messo al mondo i precedenti. Questa è una difficoltà obiettiva. Ma comunque penso che l’assenza di icone non sia l’assenza di progetti bellissimi, ma solo una questione di come passano nel nostro immaginario. Non è più il tempo di piedistalli e chiusura sotto teca di campioni mai più replicabili di bellezza, ma piuttosto di bellezza che fluisce senza fermarsi. Prima si riusciva a fare la fotografia agli oggetti che avevano il tempo di mettersi in posa da icone. Oggi è sensato aspettarsi una foto mossa oppure meglio optare per un breve video boomerang.

Nel 2020 ha ancora un senso parlare di icona del design?
Chiara Alessi dice di no e mi trovo d’accordo con lei come spesso accade. Penso sinceramente che sia una cosa che fatica a risuccedere non perché è cambiata l’iconicità degli oggetti, ma perché gli oggetti sono tanti e si sovrappongono e lo fanno su uno sfondo che è più frastagliato e rumoroso che nel passato. Si fa fatica a trovare lo spazio fisico per analizzare e percepire correttamente gli oggetti, spesso quando si sta per riuscire ne arrivano altri, spesso dalle stesse aziende che avevano messo al mondo i precedenti. Questa è una difficoltà obiettiva. Ma comunque penso che l’assenza di icone non sia l’assenza di progetti bellissimi, ma solo una questione di come passano nel nostro immaginario. Non è più il tempo di piedistalli e chiusura sotto teca di campioni mai più replicabili di bellezza, ma piuttosto di bellezza che fluisce senza fermarsi. Prima si riusciva a fare la fotografia agli oggetti che avevano il tempo di mettersi in posa da icone. Oggi è sensato aspettarsi una foto mossa oppure meglio optare per un breve video boomerang.

Cosa ti piacerebbe disegnare per i tuoi bambini?
Ehm, diciamo che non mi trattengo e quello che ho voglia di fare lo faccio e l’ho fatto. Spesso stiamo nel laboratorio dello studio assieme a costruire aggeggi infernali, astronavi, robot, travestimenti, pistole laser, alieni, animali di legno. Lo faccio anche perché mi piacerebbe trasferirgli una sensazione di potenza (intesa in senso filosofico) delle idee: se posso pensarlo, disegnarlo e progettarlo, forse allora posso farcela a farlo succedere, a farlo esistere. Si tratta solo di mettercela tutta, tutta la testa, tutte le gambe e le braccia. Questo è l’insegnamento che mi interessa e che cerco di portare avanti anche per la ricerca della fiducia nelle proprie possibilità.

Hai una lampada d’affezione?
Direi la lampada Shift che ho fatto proprio all’inizio del mio percorso nel design. Si trattava di un fascio di mille cannucce legate con due fascette da elettricista e una lampadina a basso wattaggio infilata tra le cannucce. Si vedeva la forma della lampadina senza che si vedesse la lampadina. Era un po’ come quei giochi per bambini con tanti chiodini di metallo affiancati che ricalcano le forme che vengono premute contro di essi. Oggi sicuramente mi sembra un oggetto un po’ ingenuo, ma proprio per questo mi ricorda quelle sensazioni ed emozioni di iniziare a fabbricare i primi oggetti e dare forma alla luce. Era un momento di grande coraggio e anche grandi difficoltà nel cercare di trovare uno spazio per le mie idee. La lampada poi è finita nel 2010 nella mostra di Branzi “The new Italian design”. Nel 2003 quando l’ho messa insieme timidamente nella mia stanza da studentello non avrei mai sperato tanto.

Hai una lampada d’affezione?
Direi la lampada Shift che ho fatto proprio all’inizio del mio percorso nel design. Si trattava di un fascio di mille cannucce legate con due fascette da elettricista e una lampadina a basso wattaggio infilata tra le cannucce. Si vedeva la forma della lampadina senza che si vedesse la lampadina. Era un po’ come quei giochi per bambini con tanti chiodini di metallo affiancati che ricalcano le forme che vengono premute contro di essi. Oggi sicuramente mi sembra un oggetto un po’ ingenuo, ma proprio per questo mi ricorda quelle sensazioni ed emozioni di iniziare a fabbricare i primi oggetti e dare forma alla luce. Era un momento di grande coraggio e anche grandi difficoltà nel cercare di trovare uno spazio per le mie idee. La lampada poi è finita nel 2010 nella mostra di Branzi “The new Italian design”. Nel 2003 quando l’ho messa insieme timidamente nella mia stanza da studentello non avrei mai sperato tanto.